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Non si scherza con il PIL

Legge di stabilità? 2019 numero 15

E' necessario sbloccare le 400 opere già iniziate

Non si scherza con il PIL

Già a ottobre, davanti alla primissima versione della legge di bilancio, e in un quadro nel quale l’Italia da molti anni per ragioni strutturali cresce meno dei nostri competitor sia quando la congiuntura sale sia quando scende, invitammo il governo a evitare tre scelte che ci sembravano azzardi rischiosi.

  1. La prima era anteporre l’aumento di spesa corrente a un massiccio aumento degli investimenti pubblici, e degli incentivi a quelli privati.
  2. La seconda era di non alimentare uno scontro con l’Unione Europea sui saldi di bilancio. Scontro che avrebbe alzato lo spread, e alimentato la trasmissione del sovrapprezzo del rischio sovrano a famiglie e imprese, tramite il canale bancario.
  3. La terza discendeva da un dato evidente: il calo degli investimenti era la voce che nel terzo trimestre spingeva più verso il basso la crescita italiana, in un quadro di domanda interna stagnante e di domanda estera che frenava molto come effetto della guerra internazionale sui dazi, ma dava ancora un contribuito positivo alla crescita. Di qui la necessità di evitare l’errore di depotenziare gli incentivi agli investimenti di Industria 4.0, che avevano portato in alcuni comparti privati ad aumenti a doppia cifra.

Poiché abbiamo rispetto per l’autonomia decisionale della politica, non ci è restato che prendere successivamente atto che su tutti e tre i punti le priorità del governo sono risultate diverse. Ora il quadro è ulteriormente peggiorato. Le stime di crescita del PIL 2019 del nostro Paese sono ulteriormente scese, in una forbice che va dal +0,6% della Banca d’Italia al risicatissimo +0,2% della Commissione Europea. Per le imprese, è ovvio che tale quadro di accelerazione del deterioramento delle aspettative e della fiducia imporrebbe interventi immediati.

Il governo ha infatti dovuto limitarne le dotazioni finanziarie, ma ha comunque approvato le due misure a cui più teneva:

  • i prepensionamenti di Quota 100, che destineranno una ventina di miliardi nel triennio a chi un lavoro e un reddito ce l’aveva, aggravando l’ingiustizia tra generazioni in un sistema previdenziale che resta a ripartizione;
  • e il reddito di cittadinanza, sul quale torno solo a dire che per noi è sacrosanta la lotta alla povertà, estesasi in Italia oltre ogni soglia di guardia, ma le politiche attive del lavoro si fanno con altre metriche, altre competenze e altri strumenti. Mentre già i numeri dimostrano, come temevamo, l’effetto negativo sui contratti a termine del decreto dignità.

Tuttavia, per fare questo il governo ha dovuto prevedere per il 2020/2021 quasi 53 miliardi di aumenti per IVA e accise. A cui vanno aggiunti gli interventi necessari per fronteggiare il minor gettito fiscale 2019 dovuto agli effetti di trascinamento della recessione apertasi nella seconda metà del 2018. Per questo abbiamo immediatamente detto al governo, in primis al presidente Conte nell’incontro con lui che abbiamo tenuto in Assolombarda, che il segnale di riscossa e di rilancio del PIL va dato subito. 15 E che esso va dato sulle opere pubbliche e sugli investimenti. Consentitemi di ricordare che in legge di bilancio la voce più deludente per noi sono stati proprio gli investimenti. L’incremento della spesa in conto capitale ha rappresentato a parole uno degli obiettivi della strategia del Governo. Tuttavia, nell’ambito delle misure adottate durante l’iter di approvazione della manovra per la riduzione dei saldi di bilancio richiesta dalla Commissione europea, molti interventi di contenimento del deficit – in particolare per il 2019 – hanno riguardato proprio gli investimenti pubblici e gli incentivi a quelli privati. In un contesto caratterizzato da una spesa per investimenti pubblici ancora in calo nel 2017 e pari a 33,8 miliardi di euro, inferiore di oltre 20 miliardi rispetto a quella del 2009, per il 2018 il MEF ha stimato una riduzione ulteriore per scendere a un livello di circa 33 miliardi. Nella sua versione finale, come attestato dalla relazione dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio, “la manovra prevede una riduzione della spesa in conto capitale nel 2019 di 2 miliardi, ascrivibile in larga misura a riprogrammazioni e definanziamenti di contributi agli investimenti, e aumenti nel biennio successivo, con maggiori risorse solo per il 2020 e 2021, per 6,2 miliardi nel 2020 e per 7,1 miliardi nel 2021.” Vi sono anche misure di riduzione della spesa per il 2019 che riducono gli investimenti. Dal taglio della platea e dell’ammontare del complesso di incentivi a Industria 4.0. Al definanziamento a Ferrovie dello Stato per 600 milioni per il 2019 e una riprogrammazione che riduce i fondi di oltre 1,7 miliardi nel prossimo anno che vengono rinviati in larga parte ai due anni successivi. Sono inoltre riprogrammati il Fondo cofinanziamento nazionale e il Fondo sviluppo e coesione, con diminuzioni di spesa pari rispettivamente a 850 e 800 milioni nel 2019.

La priorità ora non è una manovra correttiva della finanza pubblica ma la nostra speranza e la nostra richiesta è una manovra compensativa. Occorre al più presto una sferzata che alzi il PIL potenziale nel nostro Paese, e che abbia un impatto immediato sui quello reale già nel 2019. A chiederlo è l’intero sistema Confindustria, insieme a tutti i sindacati e a tutte le altre associazioni datoriali.

  1. Sbloccare subito le 400 opere pubbliche già finanziate per circa 27 miliardi di euro, censite dall’ANCE
  2. Rimettere mano al maxi programma del 2018 “Connettere l’Italia”, che dei 140 miliardi di investimenti pluriennali vedeva già 103 miliardi disponibili
  3. Non smentire la project review realizzata per circa venti grandi opere, che ne aveva già ridotto l’ammontare di investimenti necessari per una cifra di 40 miliardi, liberando risorse per un maggior numero di interventi diffusi sul territorio In questa lista di ripensamenti e di nuove reiterate analisi costi/benefici non rientrano solo opere come l’Autostrada Tirrenica e l’Alta Velocità Salerno-Reggio. Rientra a pieno titolo anche la TAV.

Ma non sono prioritarie solo quelle sui grandi assi Ten-T di trasporto inter-europeo. Alla crescita italiana serve il compimento accelerato della TAV da ovest a est, che incrocia l’asse sud-nord che attraverso il Terzo Valico accresce la competitività dei porti dell’Alto Tirreno, per intercettare maggior traffico commerciale dall’Asia dopo il raddoppio di Suez e rifornire l’Europa centro-occidentale erodendo il vantaggio sin qui conseguito da Rotterdam, Anversa e Amburgo. Allo stesso modo in cui nel Nord Est serve potenziare le opere che dai porti dell’Alto Adriatico rafforzino analogo sbocco verso l’Europa nord-orientale. Serve il compimento della Pedemontana lombarda e di quella veneta, serve a Genova non solo la ricostruzione del ponte Morandi, ma la Gronda per alleviare l’esausta autostrada litoranea, serve la bretella dell’Autosole a Bologna per alleggerire il collo di bottiglia della Tangenziale urbana, serve la nuova pista per l’Aeroporto di Firenze. L’elenco è lungo. Ma le risorse ci sono. Senza far deficit aggiuntivo. Infine, non si tratta solo di usare le molte risorse disponibili per rilanciare le costruzioni.

È anche necessario evitare nuovi pasticci normativi. Negli ultimi anni, l’incertezza collegata al nuovo Codice degli appalti pubblici e dei contratti di concessione, entrato in vigore nell’aprile 2016 (D.Lgs. 50/2016), e modificato con il cosiddetto decreto correttivo nel (D.Lgs. 56/2017), ha contributo alla riduzione degli investimenti pubblici. Attualmente meno delle metà degli strumenti applicativi (decreti ministeriali, DPCM e linee guida ANAC) previsti del nuovo Codice sono entrati in vigore e che due degli elementi di maggior novità, il sistema di qualificazione delle stazioni appaltanti e contestuale riduzione del loro numero, da una parte, e il sistema di rating di impresa, dall’altra, non sono ancora operativi.

L’Associazione dei costruttori edili (ANCE) e quella dei Comuni italiani (ANCI), in un documento congiunto di riflessione sottoscritto nel mese di luglio 2018, hanno avanzato alcune proposte di revisione del Codice, tra cui:

  1. a) il ritorno a un’unica fonte regolamentare,
  2. b) qualificazione di diritto (ossia senza verifiche) delle Città Metropolitane e delle Province come stazioni appaltanti; c) attenuazione del divieto di appalto integrato;
  3. d) innalzamento dell’importo dei lavori aggiudicabili con il criterio del prezzo più basso (attualmente fissato in 2 milioni di euro, dopo il decreto correttivo del 2017, rispetto al milione previsto inizialmente dal Codice).

Il Governo aveva annunciato per l’autunno la presentazione di provvedimenti legislativi per la riforma organica del Codice. E nell’estate 2018 scorsa il Ministero per le Infrastrutture ha avviato una consultazione pubblica su numerosi articoli del Codice al fine di raccogliere suggerimenti da parte dei soggetti interessati. La consultazione ha riguardato in particolare tutti i principali elementi di novità introdotti dalla nuova legislazione: sistema di qualificazione delle stazioni appaltanti, divieto di appalto integrato, rating di impresa, criterio di aggiudicazione, soft law e linee guide ANAC.

Il 28 novembre il Ministero per le Infrastrutture ha pubblicato un rapporto di sintesi sulla consultazione pubblica, che ha ricevuto oltre 1900 contributi, in maggioranza provenienti da aziende private e imprenditori individuali. Molti interventi hanno avuto per oggetto il superamento degli istituti di soft law, modifiche alla disciplina della qualificazione delle stazioni appaltanti, dell’appalto integrato, del rating d’impresa, e dell’incentivazione economica corrisposta per la progettazione curata da tecnici dipendenti delle Amministrazioni pubbliche, attualmente vietata dal nuovo Codice.

Poi il governo ha provato a introdurre subito alcune modifiche attraverso il decreto semplificazioni. Prevedendo la possibilità, in deroga al Codice e limitatamente al solo 2019, per le stazioni appaltanti di affidare lavori di importo pari o superiore a 40.000 euro e inferiore a 150.000 euro mediante affidamento diretto, previa consultazione, ove esistenti, di tre operatori economici. I lavori di importo compreso tra 40.000 e 150.000 nel 2017 rappresentavano il 52 per cento degli appalti per lavori pubblici, anche se, in termine di valore, essi costituivano solo circa il 7 per cento del valore totale dei lavori pubblici (1,5 miliardi di euro su 23,2 miliardi). Ma tale modifica è stata espunta, per intervento del Quirinale che ha correttamente rifiutato che il decreto semplificazioni contenesse una congerie di norme non omogenee e non attinenti.

È di questi giorni, infine, la circolazione di una bozza di legge delega al governo su una vastissima serie di materie, nelle quali rientrerebbe anche la materia del Codice degli Appalti. Ma nulla sappiamo di più preciso.

Inutile dire che non è con la riduzione degli investimenti e la perdurante incertezza normativa, che potremo dare una risposta efficace al rischio di una nuova seria recessione italiana.   

Carlo Bonomi, Presidente Assolombarda

Febbraio 2019


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Autore: Carlo Bonomi

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