Fuori dalla crisi 2014 numero 39
La politica industriale può contribuire all’acquisizione e alla valorizzazione di competenze nel sistema...
La politica industriale può contribuire all’acquisizione e alla valorizzazione di competenze nel sistema produttivo accompagnando e rafforzando processi spontanei; alla nascita e al rafforzamento di nuove imprese, nuovi prodotti, nuove specializzazioni che integrino quelle esistenti. Può favorire il diffondersi di strategie di imprese più adatte al quadro competitivo globale contemporaneo. Può farlo se impostata, come una grande politica economica nazionale, con precisi obiettivi stabili nel lungo periodo, dotata di meccanismi di continua consultazione pubblico-privato, flessibilità nella definizione degli strumenti, elevata capacità di monitoraggio, valutazione, individuazione degli errori e dei fallimenti, autocorrezione.
Nessuno può avere la pretesa di individuare una completa strategia di politica industriale. Allo scopo di stimolare la discussione, tuttavia, si proverà qui ad indicare alcuni punti di una possibile agenda di priorità per l’Italia. Quattro possono essere le aree di maggior interesse:
Ad esse si aggiungerà una postilla sul tema della proprietà pubblica delle imprese.
Il primo punto di una possibile agenda è molto semplice. Il tema della nascita di imprese innovative appare centrale. L’Italia è paese ad elevato grado di imprenditorialità. I fenomeni di vivace natalità delle imprese sono una delle caratteristiche più positive del suo modello economico. E’ da sempre estremamente vivace l’imitazione, nei distretti industriali e al di fuori di essi, e quindi una forte pressione concorrenziale dei nuovi entranti sulle imprese già esistenti, che le obbliga ad continui miglioramenti incrementali; le buone pratiche, così come l’informazione sulle iniziative errate e sui fallimenti, si diffondono molto rapidamente. Tutto ciò rafforza il sistema produttivo.
Quel che sembra mancare all’Italia è la natalità di imprese innovative, che incorporino conoscenze scientifiche e tecniche (di cui il nostro paese è non marginale produttore), ovvero siano frutto di nuove capacità e creatività. Vi è evidenza aneddotica di nuove imprese costituite da ricercatori e imprenditori innovativi italiani che trasferiscono dall’inizio la propria sede all’estero, in paesi avanzati nei queli trovano, evidentemente, un terreno più favorevole alla gestazione e alla prima crescita dell’impresa.
Il tema è stato compiutamente analizzato nel documento “Restart Italia” del 2012 (Ministero dello sviluppo Economico – Task Force sulle startup, 2012), che, anche attraverso una opportuna chiave comparativa, ha individuato le principali azioni necessarie per favorire questi processi. Politiche industriali per la natalità di imprese innovative non possono che agire su una pluralità di aspetti. Tuttavia, il tema dei canali e delle modalità di finanziamento iniziale (seed capital) e successivo (venture capital) delle nuove imprese pare indubbiamente centrale. Vi è un evidente fallimento di mercato, dato che il sistema bancario e finanziario non riesce ad attribuire un prezzo coerente ad attività ad altissimo rischio: a questo fallimento di mercato in molti paesi si fa fronte ad un’azione pubblica che incentivi in vario modo la nascita di intermediari specializzati, in grado di garantire alle imprese nascenti un adeguato capitale di rischio (Lerner 2013); la fortissima natalità imprenditoriale che caratterizza l’economia americana è spiegata anche dall’esistenza di tali intermediari. In Italia il venture capital “early stage” rappresenta solo lo 0,5 per mille del PIL: un terzo della media europea, un tredicesimo rispetto agli USA (Accetturo et al 2013).
Al tema della natalità imprenditoriale può essere concettualmente affiancato quello dell’attrazione di investimenti dall’estero. La struttura produttiva italiana può rafforzarsi anche attraverso l’azione di imprese a capitale estero che, come noto, sono molto meno presenti in Italia non solo rispetto al Regno Unito o alla Spagna, ma anche rispetto a Francia e Germania. La letteratura internazionale ha da tempo illustrato i (molti) possibili vantaggi degli investimenti diretti dall’estero così come i (non irrilevanti) problemi che essi possono creare. Il punto di fondo è che non tutti gli investimenti esteri sono uguali. Nell’ambito di politiche pubbliche orientate, come è opportuno che sia, ad una complessiva libertà di stabilimento delle imprese straniere, un particolare favore può essere riservato ad alcune di esse. In linea generale, gli investimenti che possono maggiormente favorire lo sviluppo dell’economia italiana, creando significative esternalità a fronte delle quali possono essere previsti strumenti di incentivazione, sono quelli che determinano un utilizzo aggiuntivo di forza lavoro ad alta qualifica; tramite operazioni “greenfield” o acquisizioni con successiva espansione. Vi è una qualche evidenza (Cersosimo e Viesti 2013a) che mostra che la presenza di imprese a capitale estero produce una significativa esternalità positiva più attraverso la valorizzazione del capitale umano ad alta qualifica che tramite tradizionali effetti di induzione di subforniture, resi oggi molto più difficili dall’organizzazione delle produzioni su catene globali.
Anche il secondo punto di una possibile agenda è semplice da delineare. Va sostenuto lo sforzo innovativo di tutte le imprese. Per quelle di minore dimensioni i processi innovativi si rafforzano principalmente dall’esterno: favorendo l’acquisizione di nuove tecnologie che possano consentire di aumentare lo stock di conoscenze disponibile e quindi essere incorporate in nuovi prodotti; ovvero l’interazione con centri di ricerca e università; ovvero la collaborazione con altre imprese per raggiungere soglie minime di risorse destinate all’innovazione. Sarebbe opportuno incentivare questi comportamenti diffusi attraverso misure semplici e automatiche.
Complessivamente l’industria (e in generale l’economia) italiana ha una spesa privata per ricerca e sviluppo largamente inferiore a quella di tutti gli altri paesi avanzati: lo 0,7% del PIL, contro l’1,9% della Germania e l’1,2% della media UE (Accetturo et al 2013). Questo è vero anche se si estende la definizione delle attività di ricerca incorporando le spese per modelli e prototipi, che sono tipiche di fenomeni di innovazione incrementale (Bugamelli et al 2012). La spesa è inferiore a quella che si registra negli altri paesi avanzati, anche tenendo conto della diversa composizione settoriale e dimensionale del tessuto produttivo (Banca d’Italia 2013). Lo strumento fiscale è quello che appare più adatto a ridurre l’alto rischio insito nelle spese di R&S: la normativa dovrebbe garantire un intervento significativo come intensità e duraturo nel tempo, in grado di modificare strutturalmente le scelte delle imprese. L’investimento in ricerca non garantisce la competitività nel lungo periodo delle imprese; è tuttavia una condizione necessaria, anche se non sufficiente, per una più intensa e duratura trasformazione strutturale del sistema produttivo. Un trattamento fiscale di favore può essere concesso a tutti gli ambiti, settoriali e tematici, di attività di ricerca: appare difficile per il legislatore selezionare a monte quei settori o quelle attività maggiormente meritevoli.
Tuttavia in più paesi, ed in ambito europeo per le recenti iniziative della Commissione e per la stessa logica dei Programmi Quadro sulla ricerca (oggi: Horizon 2020), vengono indicate aree tecnologiche definibili come prioritarie; la stessa logica presiedeva all’iniziativa Industria 2015 in Italia. Tali definizioni sono necessariamente arbitrarie. Tuttavia, può essere immaginato un sostegno particolare a taluni ambiti di ricerca, specie se in raccordo con quelli europei, magari finanziato attraverso incentivi a bando, che si aggiungano e che non sostituiscano lo strumento fiscale orizzontale. Ovvero può essere disegnato un automatico sostegno nazionale a progetti di ricerca presentati nell’ambito del Programma Quadro europeo, valutati positivamente ma non finanziati per carenza di risorse. Tale sostegno più mirato può produrre due effetti positivi. In primo luogo affronta il problema del coordinamento (Rodrik 2007) e cioè può stimolare un’attività contemporanea di più soggetti, con determinare positivi effetti di esternalità incrociate (se la probabilità di intraprendere investimenti in ricerca e sviluppo, e la possibilità che essa produca risultati positivi sono anche funzione della contemporanea attività intrapresa da altre imprese).
In secondo luogo prevedere attività congiunte fra più soggetti, attraverso la creazione di alleanze o consorzi di scopo o reti di imprese, che possono determinare un maggior successo della ricerca e sviluppo (se essa dipende dalla preesistenza di conoscenze fra loro complementari, o dalla disponibilità di capitali in impresa diverse). L’attività di ricerca e scoperta delle imprese può essere stimolata anche attraverso l’utilizzo della domanda pubblica (OECD 2011a). Al completamento del mercato unico europeo, i poteri discrezionali nell’assegnazione delle commesse pubbliche sono stati sottratti agli Stati Membri, da allora soggetti a regole più vincolanti e trasparenti. Tuttavia queste regole, insieme alle difficoltà di finanza pubblica, hanno dato vita nel nostro paese, ad un effetto che si potrebbe definire “sindrome del massimo ribasso”: la definizione certosina di ogni aspetto dei bandi di acquisto al fine di favorire l’aggiudicazione al minor prezzo. Se questo determina risparmi per gli acquirenti, non premia necessariamente le imprese migliori; e soprattutto presuppone una perfetta conoscenza da parte dell’acquirente delle proprie necessità, il ricorso a beni e servizi già esistenti.
Negli Stati Uniti l’utilizzo della domanda pubblica, specie in campo militare, aeronautico-aerospaziale, sanitario, è invece strumento importante per stimolare l’innovazione aziendale e, tramite nuovi prodotti e servizi, migliorare la capacità pubblica di affrontare i propri compiti; si parte dal problema chiedendo al mercato di individuare soluzioni; incrementi nella domanda si traducono così in maggiori capacità dell’offerta. Netto è il contrasto con la situazione italiana, dove, ad esempio, l’enorme sforzo volto a promuovere le energie rinnovabili non è si è per nulla tradotto in un incremento della capacità tecnologica e produttiva nazionale, ma solo in un boom dell’import.
Compatibilmente con le normative comunitarie, e seguendo anche la recente esperienza tedesca dell’accordo interministeriale sull’innovazione nella domanda pubblica (Warwick 2013) il procurement pubblico può svolgere una funzione di stimolo per il tessuto industriale: europeo, ma certamente anche italiano. Il terzo punto di una possibile agenda è probabilmente il più importante per il futuro del sistema industriale italiano: politiche che eliminino, quanto più possibile, gli ostacoli alla crescita dimensionale delle imprese.
Ciò che conta, come è stato sottolineato, non è la struttura per dimensione di un sistema produttivo in un dato istante di tempo, ma la sua dinamica. In Italia si discute, giustamente, sul tramonto di molte delle nostre grandi aziende del passato, da Olivetti a Montedison a Telecom (Amatori et al 2013); meno si discute sulla circostanza che non ci sono nuove grandi imprese che ne prendano il posto: negli USA un numero rilevante delle maggiori imprese di oggi non esisteva nemmeno 30 anni fa. Il sostegno alle attività di ricerca – di cui si è già detto - rappresenta un importante strumento per favorire questi processi. Uno strumento parallelo è l’incentivo all’assunzione a tempo indeterminato di personale ad alta qualifica. Il sistema produttivo italiano si distingue in Europa per due aspetti fortemente negativi: la presenza di una quota particolarmente bassa di laureati sul totale degli addetti; la presenza di una quota particolarmente bassa di impresa gestite da manager, e non solo dalla famiglia imprenditrice: le imprese familiari in cui il management coincide con la famiglia proprietaria sono due terzi in Italia, contro un terzo in Spagna e un quarto in Germania (Accetturo et al 2013); e le imprese familiari hanno una maggiore avversione al rischio. Come nel caso della ricerca, anche l’assunzione di personale qualificato è spesso vissuta come un investimento rischioso: vuoi per il suo costo e la rigidità nel tempo, vuoi per gli effetti che esso può provocare sulle routine aziendali.
Proprio per questo, misure anche generose che riducano i costi di assunzione di personale qualificato appaiono potenzialmente molto interessanti.
E’ vero che l’aumento dei dipendenti è effetto della crescita dimensionale delle imprese (si assume perché si cresce); ma è vero anche il contrario: le imprese riescono a crescere perché vengono a disporre al proprio interno di competenze incorporate nel nuovo capitale umano disponibile. Per crescere, le imprese devono acquisire saperi e competenze, imparare continuamente (Cimoli, Dosi, Stiglitz 2009); non è facile, senza una base di saperi e competenze proprie. Fondamentale è il rafforzamento patrimoniale delle imprese: il disporre di capitale proprio per finanziare i diversi aspetti del processo di crescita. Il tema è complesso e può essere solo accennato: riguarda il peso estremamente alto del capitale di debito nelle imprese; in Italia i debiti bancari sono il 70% dei debiti finanziari delle imprese, contro il 49% in Germania e il 30% nel mondo anglosassone (Accetturo et al 2013); il rilevante peso dell’indebitamento a breve; l’attitudine al controllo indiretto delle imprese a valle attraverso complesse catene di partecipazione; il rafforzamento di intermediari capaci di facilitare questi processi (anche attraverso il ricorso ad obbligazioni). Vi sono misure, in parte già adottate, di carattere fiscale. Vi sono interventi, certamente non semplici, di carattere più strutturale.
Il quarto ed ultimo punto di una possibile agenda riguarda l’indispensabile incrocio fra politiche industriali e politiche di sviluppo territoriali (OECD 2011b). La scala delle politiche industriali è plurima. Vi è una dimensione europea; vi è una dimensione nazionale, di cui qui si è finora trattato e che rimane molto importante; vi è una dimensione territoriale. Le imprese traggono molti importanti fattori di competitività dal loro specifico territorio di insediamento: dai bacini locali di forza lavoro; dalla presenza di soggetti che detengono o sviluppano competenze, come università e centri di ricerca; dall’interazione con altre imprese. Non a caso, i fenomeni più interessanti di sviluppo di nuove industrie innovative hanno una precisa dimensione geografica, tanto in Europa quanto negli Stati Uniti (Moretti 2012). In particolare le aree urbane sono i luoghi nei quali, a seguito di processi di interazione in parte causali, più facilmente si verificano le condizioni per l’emergere di nuove imprese. Politiche industriali devono quindi essere in grado tanto di agire a scala nazionale, quanto di differenziarsi e declinarsi a scala locale, regionale e urbana. Il tema del coordinamento verticale del policy-making fra più livelli di governo è complesso: include aspetti quali le attribuzioni di specifiche competenze, le modalità del loro finanziamento, l’azione delle politiche con una chiara valenza territoriale, come quelle urbane, l’esistenza di politiche di sviluppo territoriale mirate su specifici ambiti geografici. In questo quadro vanno inserite politiche industriali “territorializzate”, volte cioè a declinare specificamente su esigenze e potenzialità locali obiettivi comuni, a potenziare specifici fattori di vantaggio. In questo ambito rientrano misure assai differenziate per impostazione e importanza, dalla ricchissima esperienza tedesca a quella francese dei poles de competitivitè, al recentissimo programma statunitense dei manufacturing hubs e alle interessanti esperienze cinesi (Stiglitz, Lin e Monga 2013).
Il quadro italiano è particolarmente confuso: responsabilità e interventi si sovrappongono più che integrarsi. In particolare, per la “fuga” della politica economica centrale dalle sue responsabilità, si è molto accentuato il ruolo delle regioni in misure erogatorie a favore delle imprese (Cersosimo e Viesti 2013 a e 2013b). Nondimeno, l’esperienza dei distretti tecnologici è interessante: anche se i risultati raggiunti non sono ancora facilmente verificabili (Bertamino et al, 2013).
La materia va totalmente ripensata, alla luce delle considerazioni generali, esposte in precedenza, sulle potenzialità delle politiche industriali e sugli errori da evitare. Meccanismi continui di valutazione dei risultati e di revisione degli strumenti e degli ambiti territoriali di intervento paiono ad esempio indispensabili. Il tema è cruciale: le “esternalità di coordinamento” possono trovare soluzione proprio a scala locale; interventi sulle interazioni fra più soggetti, pubblici e privati, sono più semplici, e possono generare accelerazioni nei processi di apprendimento e crescita delle imprese.
Gianfranco Viesti - Docente di Economia Facoltà di Scienze Politiche di Bari
Foto: 14esima Mostra Internazionale di Architettura, La Biennale di Venezia, Padiglione Italia, Milano laboratorio del moderno