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Eppure Morandi era il mago del calcestruzzo

 

Intervista Mario ed Enrico Lodigiani

Eppure Morandi era il mago del calcestruzzo

 

“Il tema va inquadrato in un’ottica ben precisa”.

Esordiscono così i fratelli Lodigiani, nipoti del fondatore della storica impresa di costruzioni omonima. Il tema è quello della sicurezza tout court su ponti, cavalcavia e infrastrutture varie, tema caldo dopo la tragedia del ponte di Genova che ha causato la morte di 43 persone.
“Noi eravamo un’impresa di costruzioni. L’impresa che costruisce è responsabile del progetto e della manutenzione limitatamente al periodo del contratto stipulato, che prevede dei tempi in cui l’opera deve essere eseguita e collaudata. Dopo questo periodo l’impresa non è più responsabile della manutenzione. È invece responsabile, naturalmente, di tutta la sicurezza in fase di cantiere per quanto riguarda la costruzione, la manodopera e le macchine ed è chiamata a segnalare eventuali rilevazioni di progetti errati. Non è una facoltà, è un obbligo”.
Premesse doverose in tempi delicati dove la polemica è all’ordine del giorno e le notizie si susseguono una dietro l’altra, confondendo l’opinione pubblica. In caso di criticità, l’impresa la segnala al direttore dei lavori che ha il compito di prenderla in considerazione e valutarla: se ritenuta fondata, si studia una variante e la si propone all’ente appaltante che eventualmente la approva.

Tutte le opere hanno un proprietario, è solo questione di individuare e comprendere la fase esatta a cui si sta facendo riferimento: “Se un’opera fosse stata solo collaudata, ma non ancora consegnata, e fosse emersa una criticità, la nostra impresa avrebbe dovuto immediatamente precipitarsi a verificare quanto successo” aggiungono.
L’impresa Lodigiani, fondata nel 1906 a Piacenza da Vincenzo Lodigiani, ha realizzato buona parte dei suoi lavori a partire dall’immediato Dopoguerra e fino agli anni ‘80. Tra questi figurano ponti, dighe e infrastrutture varie. Le dighe, nello specifico, hanno sempre richiesto un’attenzione particolare: “In Italia esiste un regolamento preciso sulle dighe: tutte sono strumentate, hanno un guardiano e un ingegnere responsabile della sicurezza. La diga, per sua natura, è un manufatto delicato”.
E se si parla di dighe non si può non ricordare il disastro del Vajont del 1963: “La diga del Vajont – costruita tra il 1957 e il 1960 n.d.r. - è inevitabilmente collegata al disastro (una frana) che causò circa duemila morti. All’epoca era una realizzazione simbolica, proprio come il ponte Morandi di Genova. Da lì in avanti, e per circa dieci anni, bloccarono la costruzione di tutte le dighe in calcestruzzo, compresa quella che stavamo realizzando noi”. Il riferimento è alla diga di Caprile, sempre nel bellunese, interrotta in seguito all’istituzione di comitati preoccupati che potesse ripetersi qualcosa di tragicamente simile. Una decisione presa sull’onda dell’emozione del momento, con le sensibilità che cambiano e seguono il ritmo del tempo. Come quello che si è reso necessario per capire che il cemento armato “non è come la pietra e non è immarcescibile nei millenni.
Oggi la tecnologia è cambiata e c’è molta più conoscenza dei materiali rispetto all’epoca”. Dopo Genova, il rischio è che il nome di Riccardo Morandi venga associato esclusivamente da qui in avanti al drammatico crollo del ponte sul Polcevera.
A tale proposito i Lodigiani hanno qualche cosa da dire: “Abbiamo eseguito anche dei ponti progettati dal professor Morandi, su cui ci piacerebbe spendere due parole. È stato in assoluto il mago delle strutture in calcestruzzo, una delle persone più professionali e a modo con cui abbiamo avuto a che fare nel corso della nostra esperienza lavorativa e il primo a segnalare nel 1979 precoci fenomeni di invecchiamento del suo ponte”. Parole di stima in memoria di un grande progettista.
Grande perché simbolo di un intuito particolare e di una visione morale assoluta: “I grandi progettisti non fanno opere qualsiasi, ma opere che pensano possano servire all’umanità che vive un determinato luogo. Non è gente che ragiona soltanto sul numero o soltanto sull’estetica, ma in funzione di un futuro”.

L’invito è di non cedere alla facile polemica e di cercare un modo per rimediare al più presto alla tragedia.
Anche in questo caso accorre in aiuto un aneddoto del passato, ancora una volta riguardante una diga. Teatro dell’episodio è il lontano Pakistan: “La diga (e parliamo del contratto di ingegneria all’epoca più grande al mondo, l’opera valeva tra i 70 e gli 80 milioni di dollari), con doppia funzione di irrigazione e produzione di energia elettrica, era praticamente finita e si stavano facendo le prove idrauliche delle paratorie quando una si bloccò. Le responsabilità non erano chiarissime, ma il tutto fu affrontato dal committente al suo più alto grado (lo Stato pakistano), dall’impresa (un consorzio, tra cui i Lodigiani, n.d.r.) e dalle compagnie di assicurazione con l’obiettivo di cercare prima la soluzione, poi il colpevole. E la soluzione fu trovata in tempi rapidi. Proprio quello che sta succedendo adesso in Italia” abbozzano velatamente sarcastici. Altri tempi, altro spirito.

Oggi i Lodigiani non esistono più come impresa e amano definirsi spettatori dell’attività produttiva. “Facciamo tutto e niente” dicono in coro con una punta di ironico disincanto. Ma è quello stesso spirito d’altri tempi che li ha spinti a partecipare a una colazione di ritrovo, al Ribot di Milano, con alcuni di coloro che presero parte a un cantiere in Libia nel lontano 1973. “Eravamo ben 75 persone. Uno è venuto dall’Australia per una colazione... fuori porta!”.   

Yuri Benaglio, Redazione, Dedalo

Settembre 2018


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Autore: Yuri Benaglio

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